Oggi
la parola “inchino”, innocua fino a ieri
l’altro – e perfino un po’ retro - ha acquistato un nuovo, sinistro
significato.
Ma
l’azzardata manovra del capitano Schettino non rappresenta un’eccezione: il
cosiddetto “inchino” della nave all’isola del Giglio era un rito. Pare già
ripetuto per cinquantadue volte. Un rito improvvisamente salito alla ribalta
delle cronache solo perché, alla cinquantatreesima, è finito male. Che era pericoloso
si sapeva. Dunque, la domanda è: perché succedesse quello che è successo, tra
tutti gli attori della tragedia, chi è stato connivente con chi? Quante volte e
davanti a quale vanità o necessità si è scelto di chinare tacitamente la testa?
E in che modo gli inchini di molti, da tutti compiuti con leggerezza, hanno creato la sequenza che ha condotto alla
catastrofe?
Questa
domanda oggi pende sulla testa della Costa Crociere ma la dovrebbero tenere
presente tutte le organizzazioni. Chinare la testa di fronte a qualcosa di non
lecito o di non chiaro, e magari rifiutarsi di vederlo, può costare molto caro.
Basta pensare al Columbia, lo shuttle precipitato negli U.S.A. nel 2003. I
tecnici avevano rilevato la presenza di anomalie ma, così sembra, la faccenda
venne sottovalutata da chi doveva prendere le decisioni. Tutti misero a tacere
i loro dubbi e chinarono la testa: di fronte alle difficoltà, alla burocrazia,
al destino, ai giochi di potere. Sette morti qua, trentatré là. Tanto può
costare un inchino.
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