Ecco le pagine de "Il paradosso del successo" che avevamo dedicato alla scienziata Elena Cattaneo, appena nominata da Napolitano senatore a vita per meriti scientifici, insieme a Renzo Piano, Carlo Rubbia, Claudio Abbado. Per esigenze editoriali, queste pagine sono state tagliate dal libro. In questa speciale occasione ci fa piacere però riproporle nel nostro blog.
E’
un’esploratrice di deserti, Elena Cattaneo. Il deserto è un luogo familiare a
questa figura di scienziata che è abituata a vagarvi da sola, al massimo con un
piccolo gruppo di compagni fidati, come Ulisse sulla sua sconfortante distesa
di acque marine.
A
Ulisse somiglia Elena Cattaneo quando, giovane sposa, lascia a casa il marito
per recarsi a studiare a Boston: per una volta, il ruolo di Penelope non ce
l’ha una donna. “Eppure sono ancora felicemente sposata.” Ci dice ridendo. Ma
quali sono i deserti di cui stiamo parlando? E che cosa spinge Elena a inoltrarvisi ?
Sin
da bambina, la futura scienziata è
affascinata da ciò che è piccolo ove per “piccolo” si intende “tutto ciò che
non vedi e non raggiungi con i tuoi sensi di persona umana”. “Piccolo” dunque,
per Elena, fa tutt’uno con “invisibile”.
Quest’attrazione
si traduce ben presto in un interesse estremamente concreto: quello per le
cellule cerebrali. Elena è colpita dal fatto che molecole invisibili abbiano un
impatto così determinante sul funzionamento del cervello. Una
“microsensazione”, come la chiama lei, la porta a decidere che quello che
succede all’interno della testa è più
interessante di quanto accade nel cuore o in qualunque altro organo.
In
particolare, Elena si interessa alle staminali: allora, siamo nella seconda
metà degli anni Ottanta, comincia a esserci qualche “micropubblicazione” in
proposito.
Le
staminali sono in sostanza cellule il cui destino non è ancora stato deciso e
che, attraverso un processo denominato “differenziamento”, possono originare
vari tipi di cellule diverse, comprese le cerebrali.
La
comunità scientifica comincia a intravedere la possibilità di utilizzare il
loro potere per curare malattie come il Parkinson o l’Alzheimer.
Suppergiù
in quel periodo, Elena Cattaneo si imbatte in una persona che sarà fondamentale
per le sue scelte di vita.
A
un convegno conosce infatti Nancy Wexler , scienziata della Columbia University
che studia la Corea di Huntington, malattia ereditaria causata dalla
degenerazione di neuroni situati in specifiche aree del cervello. Il nome viene
da choreia -“danza” in greco - perché
le persone che ne sono colpite camminano inizialmente in modo strano, come se
ballassero.
La
Wexler, che ha avuto la famiglia devastata da questa malattia – sua madre ne è
morta - ha messo in piedi una vera e propria crociata per combatterla.
Dal
canto suo, Elena sta studiando proprio le staminali di quell’area del cervello all’origine
dei neuroni che degenerano in
presenza del morbo.
Alla
Wexler, quando lo viene a sapere, non par vero: “Ma allora,” esorta la collega italiana “perché non lavori
anche tu sulla Corea di Huntington?”
“Con
i suoi abbracci e i suoi enormi sorrisi, mi conquistò alla causa” ricorda
Elena.
“In me scattò una scintilla che è tuttora
accesa. Mi resi conto che il lavoro dello scienziato non finisce al bancone del
laboratorio ma ha un impatto potente sulla sulle speranze e sulla crescita
civile e sociale di interi Paesi del mondo. Che là fuori, oltre la tua
stanzetta e il tuo microscopio, c’è qualcuno che ti guarda e che spera in te,
nella tua capacità di trovare una cura.”
Divenuta
conscia di quanto il micro impatti
sul macro, l’invisibile sul visibile,
Elena si si getta dunque con passione nella nuova avventura. La sua fiducia è
messa però ben presto a dura prova.
Quello
che Elena sta facendo infatti è ancora più difficile che cercare una cura: è
cercare la strada che, una volta trovata, permetterà di cercare la cura: “era
come voler andare sulla luna ma senza sapere nemmeno dove fosse la luna”
ricorda. “ Prima di tutto, dovevamo individuare il “marcatore” ovvero la molecola
in grado di identificare, “marcare” appunto, le cellule che volevamo studiare.
A quel tempo, il novanta per cento degli scienziati nel mondo studiava la
malattia a partire dal gene malato, quello che aveva già subito la mutazione
dando luogo alla proteina tossica.
Noi,
io e i miei colleghi del laboratorio, prendemmo una strada diversa: decidemmo
di partire dal gene sano, quello che abbiamo tutti. Per capire come fa qualcosa
a funzionare male, ritenevamo indispensabile sapere prima come fa a funzionare
bene, la conoscenza della fisiologia era il presupposto per capire la
patologia. Ci sembrava talmente logico… Eppure a un congresso, dopo che ebbi
presentato le nostre prime ricerche, sentii un partecipante commentare
sottovoce con un altro che “era una storia inutile”: così fu considerato il
nostro esordio. “
Ma
Elena e i suoi non si fermano. Anzi, vanno oltre. Come mai, si chiedono,
possediamo tutti questo gene che ci mette a rischio di sviluppare una malattia
così terribile? A cosa ci serve esattamente? Per trovare la risposta, studiano
la sua evoluzione e scoprono che è nato ottocento milioni di anni fa. “
Tutti
ci prendevano per pazzi” ricorda Elena. “ Non solo studiavamo qualcosa che
sembrava inutile ma eravamo disposti a tornare indietro di milioni di anni per
capire come si era formato… alla fine abbiamo avuto ragione noi: quel gene sano
si è rivelato importantissimo per i neuroni che poi degenerano nella malattia
perché è da lui che dipende se stanno bene o male: noi abbiamo compreso come fa
a farli star bene e da cosa dipende il manifestarsi della Corea di Huntington.
Abbiamo capito che da quel gene è dipesa la comparsa dei primi sistemi nervosi:
minimi all’inizio e poi via via sempre più complessi. Quello è stato un momento
fenomenale per il nostro laboratorio:..”
Qui
Elena Cattaneo si ferma nel racconto: è commossa e ha bisogno di una pausa.
Poi
riprende con ancora più energia: “mi sono resa conto di come l’essere nel
giusto oppure no non dipende da quante persone sono con te. Non è la massa che
fa le ragioni, sono gli argomenti. E se ho gli argomenti, non ho paura di stare
per anni da sola in un deserto dove ti giri e non vedi nessuno. Conosco pochi
ricercatori coraggiosi, i più preferiscono aggirarsi per deserti già popolati:
si inseriscono tra le maglie di ciò che altri stanno scoprendo, magari prendono
la ricerca di un altro e cambiano una parola, che so, invece di studiare la tal
proteina nel fegato nel topo, studiano la stessa proteina nel fegato del…
topolino! “
Scoppia
in una risata la nostra scienziata e in questa risata da ragazzina si scioglie la
commozione di poc’anzi. Sembra una donna che non ha paura di niente ma, non
appena glielo facciamo notare, subito si schermisce. “Le uniche paure che non
ho sono quelle “inutili” ribatte. “Per esempio, non ho paura di espormi o di
fare brutta figura.”
“E
come mai?”
“La
scienza può sviluppare la capacità di vivere con intensità le nostre idee quasi
a prescindere dal fatto che siano nostre. Perciò se ho ragione sono contenta:
giusto per un’ora o due. Ma se ho torto, non mi sento distrutta o come se
avessi subito chissà che. Semplicemente cambio la mia posizione.”
“E
quali sono invece le paure “utili”?”
“Ogni
giorno ho paura di sbagliare” ci confessa “anche in qualcosa di molto “micro”.
Ma è un timore che fa parte della costruzione, che mi spinge a cercare
continuamente argomenti, per cui voglio tenerlo scritto sul muro a caratteri
cubitali.”
Nelle
parole di Elena finora è emersa la fede, è emersa l’avventura. Ma emerge anche
un senso impagabile di libertà: la libertà dalle paure che lei chiama “inutili”
le permette di denunciare soprusi – come
appropriazioni indebite di denaro pubblico - anche quando la sua voce, tanto
per cambiare, si leva come quella del Battista nel deserto. Le permette
perfino, nel 2009, di intentare causa al governo Berlusconi.
In
quell’anno infatti, ministero della Salute indice un bando di ricerca per
valutare nuove idee sulle cellule staminali e sul loro potenziale terapeutico:
pane per i denti di Elena e del suo laboratorio. Ma c’è un ma: il testo del
bando specifica che dal concorso è escluso ogni tipo di studio condotto sulle
staminali embrionali.
Il
divieto, che non viene nemmeno motivato, cade come una scure sulle aspettative
e le speranze del gruppo: le staminali embrionali sono infatti proprio al
centro delle ricerche dirette da Elena. Del resto non si tratta di cellule
qualsiasi: le staminali embrionali, definite “le madri di tutte le staminali”
sono in grado di produrre tutti i duecentocinquanta tipi di cellule
specializzate del nostro organismo, ne possiedono ogni segreto.
Benché
inspiegata, la proibizione è tutt’altro che inspiegabile. Le staminali
embrionali si ricavano infatti dalla blastocisti, il prodotto del concepimento
in vitro, e proprio la blastocisti è al centro di un’annosa questione: questa
microstruttura di un centinaio di cellule, grande meno di un millimetro, è o
non è una persona?
Secondo
la Chiesa Cattolica e il governo italiano sì. Secondo altre Chiese e altri
Paesi no. Una volta che sono riuscite a sviluppare la tanto desiderata
gravidanza, le coppie possono decidere di donare alla ricerca le blastocisti in
sovrannumero mentre in Italia tutte le cellule uovo devono essere
obbligatoriamente impiantate nell’utero della donna. Ma attenzione: se la legge
italiana vieta agli scienziati di prelevare cellule staminali dalla
blastocisti, non vieta però di importare dall’estero cellule staminali embrionali
già prelevate da qualcun altro: grazie a questa scappatoia legale, i
ricercatori italiani come Elena Cattaneo hanno la possibilità di portare avanti
i loro sperimenti. Ecco perciò che la clausola contenuta nel bando del 2009 viene
vissuta come una colossale ingiustizia: se da un lato vanifica, almeno in
parte, anni di lavoro, dall’altro contraddice la legge stessa: che senso ha
permettere l’importazione di cellule che poi, di fatto, non possono essere
utilizzate a fini rilevanti per la salute pubblica? Elena Cattaneo, insieme ad
altre due donne risolute come lei, Silvia Garagna, una collega di Pavia, ed
Elisabetta Cerbai, prorettore alla ricerca scientifica presso l’Università di
Firenze, decide così di fare causa al governo italiano. Motivazione: abuso di
potere. L’avvocato che segue la vicenda è lo stesso del caso Englaro, Vittorio
Angiolini.
”Il
governo può stabilire quali sono gli obiettivi ma non può indicare la strada e
gli strumenti tecnici, è lo specialista che deve decidere come fare” afferma Elena
Cattaneo. “Data la preclusione insita nel bando, noi non abbiamo potuto
partecipare al concorso e la nostra idea non ha potuto essere valutata: lo
considero un danno.
La nostra causa è già
stata respinta al Tar con motivazioni inverosimili ma noi non ci arrendiamo,
andiamo avanti, anche se paghiamo di tasca nostra. Ma ne vale la pena, si
tratta di una faccenda che ha implicazione sociali e civili enormi. E poi –
sorride Elena con una punta di malizia - raccontare in giro per il mondo che ho
fatto causa a Berlusconi mi dà una soddisfazione enorme! Scrivetelo,
scrivetelo!” ci raccomanda. E noi lo scriviamo.
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